giovedì 14 maggio 2009

Il settimo sigillo di Ingmar Bergman


Title: Il settimo sigillo
Director: Ingmar Bergman
Years: 1956
Genre: Drammatico


Il cavaliere Antonius Block, di ritorno dalle crociate in compagnia del fedele scudiero Jons, sul proprio cammino si imbatte nella Morte, che è venuta a prendere la sua anima; per guadagnare tempo, Block sfida la Morte ad una partita a scacchi, mettendo in palio la sua stessa vita. Intanto, durante il viaggio verso casa il cavaliere si imbatte in un’umile famiglia di saltimbanchi e decide di scortarli fino al proprio castello.
Presentato al Festival di Cannes nel 1957, Il settimo sigillo è stato il primo grande successo internazionale del mitico regista svedese Ingmar Bergman, l’opera che l’ha consacrato presso la critica e il pubblico come uno dei maggiori cineasti della nostra epoca. Tratto da un atto unico teatrale scritto dallo stesso Bergman, Pittura sul legno, e girato a basso costo in appena un mese, il film (il cui titolo è tratto da un verso dell’Apocalisse, riferito all’apertura dei sette sigilli nel giorno del Giudizio Universale) è entrato nell’immaginario collettivo soprattutto per la celeberrima partita a scacchi tra il protagonista e la Morte, rappresentata come una sinistra figura incappucciata e avvolta in un lungo mantello nero, secondo la tradizionale iconografia medievale; una scena cult che diventerà ben presto oggetto di citazioni e parodie, fra cui quella realizzata da Woody Allen nel suo Amore e guerra.
Ambientato nella Svezia del XIII secolo, il film è raccontato attraverso il punto di vista del cavaliere Antonius Block, interpretato dall’attore Max von Sydow (nome d’arte di Carl Adolf von Sydow), accompagnato dal suo scettico e agnostico scudiero Jöns (Gunnar Björnstrand). Block è un nobile e valoroso guerriero rientrato in patria dopo aver combattuto nelle crociate, il cui animo è però turbato da inquietudini esistenziali e domande alle quali non riesce a dare risposta. Tema centrale della pellicola è proprio la ricerca di Dio, un Dio invisibile che pare indifferente alle suppliche dei suoi figli. Ingmar Bergman dipinge un Medioevo oscuro e violento, con un paese sconvolto dalla pestilenza e dal caos nel quale imperversano il terrore e il fanatismo religioso, come evidenziano in maniera esplicita le sequenze del corteo dei flagellanti e della ragazza bruciata sul rogo sotto l’accusa di stregoneria. La narrazione alterna sapientemente i registri del tragico e del comico, grazie alla presenza di alcuni personaggi burloneschi e di intermezzi da commedia, fino a sfiorare addirittura il limite del grottesco. Non mancano inoltre numerosi simbolismi e richiami pittorici all’arte scandinava.
Come in moltissime altre sue opere, anche qui Bergman si interroga sui complessi temi della fede e del rapporto tra Dio e l’uomo, e sulla nostra naturale paura della fine e dell’ignoto, che qui trovano una suggestiva personificazione allegorica nella Morte (Bengt Ekerot). Eppure, Il settimo sigillo non è soltanto un film sulla morte, ma è innanzittutto una profonda riflessione sulla vita e sul suo significato. E Antonius Block, incapace di risolvere i propri dubbi su Dio e sull’anima, riceverà all’improvviso la risposta che attendeva grazie all’incontro con una comune famiglia di saltimbanchi, che nella loro semplicità e nel loro spirito di comunione fraterna riusciranno a dare un senso al suo percorso umano e spirituale; al punto che, in conclusione, Block sceglierà di sacrificare se stesso per consentire agli amici di sopravvivere. Indimenticabile il finale della pellicola, con la Morte che guida la processione dei defunti lungo il pendio di un





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lunedì 11 maggio 2009

La montagna sacra di Alejandro Jodorowsky


Title: La montagna sacra
Director: Alejandro Jodorowsky
Years: 1973
Genre: Fantastico, Grottesco


Ci sono film che hanno una natura talmente eversiva e paradossale da riuscire a diventare, nell'arco di UNA SOLA visione un punto cardine esperienziale dello spettatore che ne resta letteralmente rapito per non dire folgorato.
Con questo "La Montagna Sacra" (1973) di Alexandro Jodorowsky, il discorso metafisico iniziato col precedente "El Topo" (sempre recensito da me) si fa totalizzante, spiazzante e davvero trasgressivo. Ciò che prima era stato mantenuto su un livello più filosofico che terreno, qui al contrario si celebra la "fisicità delle cose", il suo essere PRIMA carne, sangue, corpo e POI ideologia e spirito.

Un film idealmente diviso in tre sezioni:
1) L'INIZIAZIONE
Il protagonista, un essere allo stato brado senza regole nè morale, incontra il Guru Alchimista (interpretato dallo stesso Jodorowsky) che lo istruisce sulla Missione che vuole affidargli. Il tutto scandito da balli, scene oniriche e coreografie che avrebbero fatto impallidire lo stesso Peter Greenway.
2) I DISCEPOLI
Qui si presentano i co-protagonisti presi in prestito dal loro mondo (che poi è il nostro) malato, blasfemo, carico di violenza e straripante di grottesca animalità viscerale a tratti davvero shoccante, in un'orgia di eccessiva visionarietà che raramente si è vista sugli schermi cinematografici (ad eccezione di Bunuel, Lynch, Cronenberg e qualche altro raro esempio), con invenzioni più o meno riuscite di macchinari, violenza e tecniche di sottomissione della varia umanità/freaks sparsa nel mondo.
3) LA SCALATA
Il protagonista coi suoi discepoli inizierà la scalata simbolica della Montagna Sacra per la Redenzione del Mondo e per capire il senso ultimo dell'esistenza, con il colpo di scena finale davvero inaspettato, vero apice di una trasgressione portata agli eccessi.

Un film sconvolgente, pieno di simbolismo e carico di eccessi portati all'esasperazione dove le parole trasgressione, eresia, blasfemia, allegoria, grottesco, malattia, perversione, follia, surrealismo e terrorismo (ebbene, ci sono anche componenti di questo tipo... del resto erano ancora ben vivi gli spettri della Rivoluzione del '68 e si cominciavano a far spazio le idee sovversive del '77) si fondono in maniera a tratti squilibrata e ossessiva restituendoci però un qualcosa di davvero VIVO e PULSANTE.
Direi un'esperienza di vita intensa più che una semplice visione di un film.
Per me: CAPOLAVORO ASSOLUTO!

Eccovi alcune curiosità sul film trovate su alcuni siti:
- Girato interamente in Messico, il film è costato circa 750.000 dollari.
- Il film è basato su "La salita del Monte Carmelo" di Giovanni della Croce e "Mount Analogue" di René Daumal.
- Prima che le riprese iniziassero, il regista stette una settimana senza dormire sotto la supervisione di un maestro zen e visse fianco a fianco del cast per un mese.
- Il regista avrebbe voluto che gli attori fossero ipnotizzati prima di girare le scene. La cosa non poté essere fatta, ovviamente.
- Il film sarebbe dovuto costare 1,5 milioni di dollari, facendo di esso il film più costoso mai prodotto in Messico fino al '73. Poi però la pellicola riuscì a contenere i costi fino a risparmiare la metà dell'esborso preventivato.
- Il film fu interamente finanziato da John Lennon e Yoko Ono dopo che i due avevano gestito la distribuzione di El topo (1971) in USA.

Recensione di: Stronko




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venerdì 8 maggio 2009

La Classe Di Laurent Cantet


Title: La Classe
Director: Laurent Cantet
Years: 2008
Genre: Drammatico


François Bégaudeau è insegnante di francese in una scuola media superiore parigina. Facciamo la sua conoscenza mentre si incontra con i colleghi (vecchi e nuovi arrivati) ad inizio anno scolastico. Da quel momento rimarremo sempre all'interno delle mura scolastiche seguendo il suo rapporto con una classe.
Il suo metodo d'insegnamento, che si rivolge a un gruppo eterogeneo di ragazzi e ragazze, mira ad offrire loro la migliore educazione possibile in una realtà cui i giovani non hanno un comportamento sempre inappuntabile e possono spingere anche il migliore dei docenti ad arrendersi a un quieto vivere che non richieda confronti e magari scontri con gli allievi. Non tutti infatti apprezzano la sua franchezza e il professor Bégaudeau si troverà dinanzi a un caso che lo metterà in una posizione difficile.
Laurent Cantet, dopo l'incursione nel fenomeno del turismo sessuale al femminile di Verso il Sud torna ad un argomento che ci riguarda, più o meno direttamente, tutti: la scuola.
Grazie all'esperienza, tradotta in una sorta di diario di viaggio attraverso un anno scolastico, dell'insegnante François Bégaudeau il regista ci aiuta a riflettere su quanto l'equilibrio di una realtà classe (anche non border line)oggi possa rivelarsi estremamente precario.
Dopo un complesso training con i giovani attori presi questa volta non 'dalla strada' ma 'dalla scuola' e scegliendosi come protagonista il Bégaudeau reale, Cantet affronta con piglio da documentarista una realtà che studenti e docenti vivono in modo analogo non solo a Parigi o in Francia. Senza enfasi né retorica il docente e il regista ci mostrano quanto il ruolo di insegnante così come quello di studente siano oggi sempre più complessi e, in qualche misura, da provare a ricostruire dalle fondamenta.
Potrà anche sembrare un po' lento e dilatato il narrare di Cantet in questa occasione ma, per chi ha tempo per ascoltare e in particolare se genitore, il suo è un film prezioso.




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Download: Parte 1, Parte 2

martedì 5 maggio 2009

Seven di David Fincher


Title: Seven
Director: David Fincher
Years: 1995
Genre: Poliziesco


Sette sono i peccati capitali e sette sono gli omicidi che un assassino psicopatico programma, corredati da torture efferate. Comincia con la gola e l'avarizia, continua con l'accidia. L'ultimo è la lussuria, ma l'intervento di due investigatori, uno anziano e nero, uno giovane e bianco, lo obbliga a modificare il piano. Tra i tanti meriti della sceneggiatura di Andrew Kevin Walker c'è anche quello di aver modificato gli stereotipi della coppia bianco-nero approfondendo i personaggi a livello psicologico e legandoli ai temi principali del film: la presenza del Male nel mondo e l'indifferenza di fronte alla caduta dei valori. Un film dal taglio espressionista (fotografia di Darius Khondji; musica di Howard Shore), ambientato in una città senza nome, ricco di citazioni letterarie che ne sono la minacciosa struttura, senza una scena di violenza di cui sono visibili soltanto le conseguenze. Un bel cast in cui si distingue K. Spacey nel tragico epilogo.




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sabato 2 maggio 2009

Il disprezzo di Jean-Luc Godard


Title: Il disprezzo
Director: Jean-Luc Godard
Years: 1963
Genre: Drammatico


L'attraente moglie francese di uno sceneggiatore italiano disprezza il marito, troppo arrendevole ai compromessi con il produttore americano che l'ha scritturato per salvare un film diretto da un regista tedesco, Fritz Lang. Tratto dal romanzo (1954) di Alberto Moravia e maciullato nell'edizione italiana dal produttore Carlo Ponti, è un film imperniato sul rapporto classicità-modernità. Godard stravolge Moravia, criticandolo. Il suo talento lampeggia e s'impone, nonostante i tagli.





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mercoledì 29 aprile 2009

Psyco di


Title: Psyco
Director: Alfred Hitchcock
Years: 1960
Genre: Giallo


Una bella impiegata ruba quarantamila dollari e fugge. Cambia la macchina, si trova nel mezzo di un temporale e decide di passare la notte in un motel. Il proprietario è Norman, all'apparenza un ottimo ragazzo che manifesta soltanto qualche piccola stranezza, come quella di impagliare uccelli. Il motel non ospita nessun altro cliente. La donna decide di fare una doccia prima di dormire. Sotto l'acqua viene aggredita e uccisa da un'altra donna, che si intravvede appena. La mattina Norman scopre il corpo. Sconvolto fa pulizia, mette il cadavere nel bagagliaio e fa sparire la macchina nelle sabbie mobili. Sconvolto perché sa che l'assassina è sua madre, che è patologicamente gelosa del figlio e non sopporta neppure che parli con altre donne. Un investigatore privato, con l'aiuto del fidanzato della donna uccisa, riesce a risolvere la matassa, anche se ci rimette la vita. Norman e sua madre sono la stessa persona: il ragazzo è pazzo, dopo aver ucciso la madre per gelosia ne custodiva il corpo in soffitta e si identificava in lei non sopportando il rimorso del proprio delitto. Psycho non era certo il migliore dei film di Hitchcock ma a volte le vie del culto percorrono strade misteriose. Negli anni Sessanta la pratica dell'inconscio non era certamente una novità, lo scalpore c'era già stato nel 1944 con Io ti salverò (Gregory Peck, con l'aiuto della Bergman e di un "freudiano" risolve le proprie angosce risalendo analiticamente a un incidente infantile), ma Anthony Perkins aveva dato un'interpretazione di tale efficacia da divenire da quel momento il più famoso "pazzo" della storia del cinema, senza più una possibilità autentica di emanciparsi da quel ruolo. La critica non ha mai perdonato a Hitchcock l'eccesso di crudezza (e di effetto) di certe scene. Ricordiamo le più famose: il teschio della madre seduta sulla sedia girevole, la morte del detective privato (Martin Balsam), la sinistra casa Bates sempre inquadrata contro un cielo minaccioso. Soprattutto la sequenza dell'uccisione di Janet Leigh sotto la doccia ha creato una vera psicosi collettiva.





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domenica 26 aprile 2009

Ottobre: i dieci giorni che sconvolsero il mondo di Sergej M. Ejzenstejn


Title: Ottobre: i dieci giorni che sconvolsero il mondo
Director: Sergej M. Ejzenstejn
Years: 1917
Genre: Drammatico


1. L'improvvisa ripresa, anche in Italia, di studi generali e monografici sul cinema e sui registi sovietici degli anni '20, accompagnata da antologie di scritti teorici e di memorie e testimonianze dei maggiori protagonisti, è certamente un segno positivo che colma, in parte, antiche lacune, spinge a rivedere "sistemazioni" arcaiche o frettolose, ripropone, come è accaduto in Francia, ma si spera con altra coscienza critica, un riferimento imprescindibile, storico e teorico, all'esplosione postsessantottesca e al successivo riflusso "dottrinario" del dibattito sui rapporti tra cinema e rivoluzione.
Si tratta, ancora, di volumi antologici che non esauriscono affatto l'insoddisfazione e la curiosità per gli innumerevoli testi (di Ejzenstejn, di Vertov, della Feks) che attendono di essere tradotti e proposti in edizioni filologicamente attendibili e ordinate secondo criteri storici rigorosi. Mentre perdura, ovviamente, il disagio alimentato dalla scarsa circolazione italiana di opere ed esperienze rispetto alle quali gli scritti teorici si pongono in termini di generalizzazione produttiva, piuttosto che come teorizzazione chiusa nel proprio "specifico".
Anche per questo, sconcerta la sicurezza, spesso la perentorietà, con cui esperienze assai articolate, contraddittorie e non di rado contrastanti, vengono, da alcuni nostri studiosi, prima assimilate al comune denominatore di una generica nozione di "avanguardia" e ricondotte, poi, dentro uno schema "teorico" secondo il quale, dall'ottobre '17 al Piano, «comincia ad attuarsi progressivamente, con una rigidità che non lascerà più alcuno, spazio, il processo di ricomposizione di tutta la classe operaia, ridotta al ruolo di forza-lavoro, dentro la produttività socialista, e, parallelamente, l'identificazione ideologica del socialismo con lo sviluppo, il lavoro realizzato, la riorganizzazione della produttività», processo che avrebbe, tra l'altro, l'effetto di promuovere «l'integrazione organica dell'avanguardia in una società che scivola progressivamente nella ricomposizione totalizzante e nella riduzione di tutto il sociale all'identico nel Piano».Di qui, per deduzione davvero "totalizzante" e tralasciando l'analisi dei singoli e spesso irriducibili apporti individuali e di gruppo, la conclusione secondo cui «l'avanguardia si pone insieme come autocoscienza della rivoluzione e autocoscienza dello sviluppo» e «porta in sé, aldilà della sperimentazione e della negazione, una determinazione tecnologica, metropolitana, produttivistica, cioè integrata all'ideologia della riorganizzazione del lavoro». E dunque, in un apocalittico giudizio a posteriori, «da Majakovskij al costruttivismo, dall'eccentrismo a Ejzenstejn lo sviluppo si pone come emergenza rivoluzionaria, pratica della trasformazione violenta che disgrega il vecchio mondo zarista-contadino e apre sul futuro della produzione tecnologica e massificata, sulla programmazione come valore in sé».
E, pertanto, con più esplicita e categorica formulazione da parte di altri, «la ristrutturazione tecnica e metodologica proposta da Ejzenstejn e dagli altri formalisti russi all'interno della produzione artistica» non sarebbe altro che «la risposta, più intelligente e più avanzata, della cultura alle nuove esigenze e alla nuova organizzazione richieste dal sistema politico ed economico: Ejzenstejn e il futurismo - più ancora che il formalismo - si pongono come ideologia dello sviluppo razionale e funzionale dell'economia e della società sovietica nel suo complesso» "'. E, grandinando con foga implicata sul bersaglio inevitabile e ricorrente di queste esecuzioni sommarie: «Il cinema di Ejzenstejn intende mantenere l'ambiguità tra ricerca formale e impegno rivoluzionario; oggettivamente, invece, come ricerca formale si inserisce nella generale ideologia del "mito tecnologico" degli anni immediatamente successivi alla NEP, e finisce per avere, quale pubblico particolare, l'avanguardia intellettuale borghese e "non" borghese; come impegno rivoluzionario esso costituisce semplicemente l'epopea del comunismo, ricostruisce i grandi momenti della sua storia, considerandolo come un processo ormai già dato, già compiuto e conchiuso, di cui si possono solo cantare le glorie: rivoluzionario è soltanto l'oggetto del cinema di Ejzenstejn, non la sua funzione reale»'`. E pertanto «l'impegno del cinema di Ejzenstejn si esaurisce a "cantare" - con voce che soltanto gli animi nobili dell'avanguardia intellettuale possono sentire - il passato della rivoluzione, la sua storia gloriosa, le sue imprese grandi; ma non interessa per nulla lo sviluppo della rivoluzione, il suo futuro, le sue possibilità reali di mutamento».Dove sconcerta, in uno studioso serio e attendibile, insieme con la perentorietà inverificata dei giudizi, la contemporanea liquidazione, in uno, di tre nodi fondamentali: la collocazione e la produttività storica-determinata dell'esperienza teorico-pratica di Ejzenstejn, il problema generale e storicamente specifico della dialettica tra gruppi intellettuali rivoluzionari e società dentro una rivoluzione in corso o comunque non ancora del tutto e definitivamente spacciata nella totalità della "ricomposizione" e dello "sviluppo", la funzione e la responsabilità del partito nel promuovere e organizzare - o meno - una ricezione attiva, socializzata, e una critica di massa di determinate correnti ed esperienze artistiche.
Ma tant'è: quel che preme è concludere, con l'inevitabile Asor Rosa di «Contropiano», che «per fare della buona letteratura il socialismo non è stato essenziale. Per fare la rivoluzione non saranno necessari gli scrittori».All'interno di questa "divaricazione", la vicenda di Ejzenstejn si porrebbe fin dall'inizio, in quanto tendeva a dare risposta alla «esigenza di garantire processi di comunicazione più semplificati e controllabili, capaci di funzionare linearmente nel quadro ideologico ufficiale», in «radicale contraddizione con la produttività significante negativa e provocatoria dell'avanguardia» (Potëmkin); il progetto ejzenstejniano di elaborare nella prassi strumenti e metodi sollecitanti a pensare dialetticamente rappresenterebbe, sostanzialmente, «una forma di riduzione del concetto di costruzione della vita, quale era stato elaborato dalle avanguardie (come modificazione dei comportamenti socio-esistenziali collettivi), a pratica ideologica di trasformazione delle coscienze, attraverso l'uso di strumenti conoscitivi ed espressivi adeguati»
E, pur riconoscendo che «per Ejzenstejn quello che garantisce il carattere materialistico e rivoluzionario dell'atteggiamento formativo è la capacità di portare dentro il cinema la forma e la dialettica della fabbrica, come complessità determinata di rapporto produttivo e di pratica di lotta, come livello di emergenza della qualificazione produttiva del lavoro vivo e del suo negarsi nel processo rivoluzionario», si precisa subito dopo che «il punto di vista della fabbrica è in parte ridotto e semplificato in forme teoricamente imprecise, e in parte sottratto a un intervento reale nella dinamica della produzione intellettuale, cioè astratto a determinazione ideologica che non si fa forma critica della negazione, ma tende a riassumere i connotati e la struttura di funzionamento dell'ideologia socialista». Mentre per Pasqualotto, meno tortuosamente ma anche con più sbrigativa impazienza e arrivando dritto al "come volevasi dimostrare", «i film di Ejzenstejn costituiscono l'apologia della rivoluzione del '17, rappresentano la "sistemazione" della rivoluzione avvenuta come palingenesi universale [...]. Ideologia del socialismo realizzato attuata mediante un recupero e una riattivazione di alcuni schemi narrativi e di alcuni ideali della più alta tradizione epica borghese: schemi e ideali assunti come universali ed eterni, validi anche per la rivoluzione bolscevica, validi anche per il '17».
2. Negli ultimi scritti del 1923, ricorda Bettelheim, «Lenin ritorna anche sul tema della "rivoluzione culturale" come condizione indispensabile allo sviluppo del socialismo. Certo, ciò che egli ha in vista "per cominciare" (dunque non per arrestarvisi) è una "cultura borghese" che permetta di sbarazzarsi delle "culture pre-borghesi, cioè burocratiche o feudali". È d'altronde chiaro che quando parla di "cultura borghese" è per respingere le concezioni prefabbricate di "cultura proletaria" proposte da "molti dei nostri giovani letterati e comunisti", e non per rifiutare una cultura proletaria autentica capace di informare realmente il costume, di "diventare un abito". Ma già nel maggio 1924, a pochi mesi dalla morte di Lenin, il confronto e la divisione, su questi problemi, si riaccendono animosamente, in particolare durante la riunione della sezione stampa del comitato centrale dedicata alla politica del partito nella letteratura. Nella relazione introduttiva, Voronskij si attiene ancora alla posizione "tollerante" e antiamministrativa («L'arte per sua natura, come la scienza, non si presta a essere regolata con la stessa facilità con cui si prestano alcune altre sfere della nostra vita»), riconferma l'impegno del partito di appoggiare i «gruppi rivoluzionari», «senza però fare proprio il punto di vista di un determinato raggruppamento letterario», e ripropone la produttività di una «assimilazione critica della vecchia arte e cultura». Ma Vardin, intervenendo subito a nome del Na postu (Al posto di guardia), contrattacca ferocemente, opponendogli il rafforzamento dell'ideologia borghese, conseguente e parallelo alla «crescita dei kulaki nelle campagne» e a quella del «capitale privato nelle città», rifiuta la libera circolazione di massa della letteratura «controrivoluzionaria» e afferma la necessità che si costituisca «una frazione bolscevica nella letteratura»: «questa cellula, questa frazione comunista è il gruppo degli scrittori».
E tuttavia, nell'asprezza del contrasto, tra l'aperturismo "tollerante" di Voronskij e il settarismo della indicazione "proletaria" di Vardin almeno un dato comune, e non di poco conto, esiste: la concezione paternalistica delle masse, "arretrate" per l'uno, "corruttibili" per l'altro. Il problema di un rapporto creativo, critico, non soltanto "didattico", tra partito e masse, resta fuori e ai margini dello scontro. La risoluzione del comitato centrale, l'anno successivo (1 luglio 1925), riprenderà, sostanzialmente, le conclusioni di Voronskij e della maggioranza della sezione stampa: «se il proletariato ha già in mano criteri infallibili di valutazione del contenuto politico-sociale di qualsiasi opera letteraria, esso non ha ancora risposte altrettanto precise a tutti i problemi della forma artistica». E ancora: «servendosi di tutti i risultati tecnici della vecchia arte, elaborare una forma adeguata, comprensibile alle vaste masse».
È proprio su questo terreno che si innesta, sovvertendolo, il "progetto" di Ejzenstejn, apparentemente in margine alle aspre discussioni del biennio 1924-25, in realtà entrandovi nel merito con grande lucidità e consapevolezza Per lui, infatti, la "tecnica" della "vecchia" arte non è neutrale. L'articolo del '25 (L'atteggiamento materialistico verso la forma) si organizza intorno a due riferimenti e obiettivi essenziali: la fondazione materialistica della forma, muovendo dalla centralità dei processi produttivi; la dilatazione rivoluzionaria del cinema, muovendo dalla lotta di classe in corso (il «cine-occhio» non sa evitare il «pericolo che lo spirito quotidiano e piccolo-borghese contamini la rivoluzione»).
Sarà questo, sino al 1929 (con incalzante tensione propositiva) e oltre (in modi via via più tortuosi, "mascherati" e indiretti), il terreno privilegiato della ricerca pratico-teoricalteorico-pratica di Ejzenstejn: "organizzare" lo spettatore (per ciò stesso rovesciandone la posizione "passiva") attraverso un materiale organizzato. 1925: «l'opera d'arte [...] è innanzi tutto un trattore, che ara a fondo la psiche dello spettatore, in una data direzione classista» (L'atteggiamento materialistico verso la forma); 1927-28: «il cinema "antico" riprendeva una azione da molti punti di vista. Quello nuovo monta un punto di vista da molte azioni» (Come portare sullo schermo il Capitale di Marx); 1929: «credo che solo adesso noi possiamo iniziare a immaginare le vie in cui si costruirà un cinema realmente sovietico, cioè un cinema che non solo per l'appartenenza di classe è opposto a quello borghese, ma che ne costituisce anche un radicale superamento nella sua stessa metodologia e se nell' «epoca del comunismo di guerra» e nell'«"inquieto tempo" della NEP», «noi cercavamo di suscitare un'improvvisa scarica di emozioni, le nuove opere invece debbono mettere in moto processi intellettuali che si verificano in profondità, per azione dei quali, non subito, non immediatamente, non di colpo, ma a suo tempo si verificheranno profondi rivolgimenti interiori, mille volte più radicali e decisivi nei confronti del nostro nemico di classe: "l'emotività, fatta a pezzi dal quinquennale" (Prefazione. Per il libro di Guido Seeber «Tecnica del Cinetrucco»); 1942-1946: «Gran Dio! Poiché noi siamo riusciti proprio ora a far questo con uno dei temi filosofici più astratti. E non basta: con un grande effetto emozionale sullo spettatore, lo spettatore ha riso! Ciò significa che è possibile un intero sistema cinematografico di questo genere, un cinema capace di ridurre l'astrazione di una tesi a fiorire in un modo emozionale. Ciò significa che è possibile "il cinema intellettuale"» (Il male volteriano)'.
Nel "disegno fluttuante" della teoria e fermo restando, come si è giustamente ricordato anche recentemente, che «Ejzenstejn non capitalizza le proprie acquisizioni teoriche», reinvestendole nella prassi, il filo rosso dell'immenso e svariante lavoro persiste: netto e riconoscibile. L'eredità delle "avanguardie" - antinaturalismo, sperimentazione, "fattografia" - viene recuperata, all'interno di una rifondazione materialistica della forma, come tendenzialità eversiva e conflittuale reinnescata nel processo di rivolgimento che si è aperto, e non chiuso, con l'Ottobre: «Tutti i mezzi dell'arte debbono sempre tendere allo scopo di acuire l'attuale conflitto e non invece di distoglierne lo spettatore. La borghesia è una grande specialista nell'attenuare le acute contraddizioni dell'epoca contemporanea, così splendidamente composte nella filosofia del "happy-ending». L'arte, senza uscire da se stessa ma rivoluzionando i suoi procedimenti, può, e deve, promuovere una prassi critica di massa capace di "diventare un abito".
3. Per l'ultimo Sklovskij, grande rasserenatore dei contrasti e delle divergenze del passato, Ottobre e La fine di San Pietroburgo sarebbero «tragedie ottimistiche sulla distruzione di ciò che è vecchio»: Ejzenstejn e Pudovkin «lavoravano entrambi come ricercatori nel laboratorio della grande arte del futuro, ma in reparti diversi di questo laboratorio». In realtà, non si potevano dare ipotesi di lavoro più diverse e divergenti, nel presente e per il futuro.
In un articolo, molto noto, del 1926, Lunacàrskij aveva attaccato «i grossi e i piccoli pedanti del cinema sovietico» che proclamavano l'era dei «film senza trama, senza eroi e senza eroismo», film che non avrebbero trovato «uno sbocco psicologico di massa».Se Pudovkin accetta, e sia pure senza difficoltà e a un livello "alto", l'indicazione del commissario del popolo per la cultura («Dobbiamo sapere anche noi sedurre il nostro pubblico»), la risposta di Ejzenstejn è ancora una negazione: la più intransigente e "provocatoria" possibile. La presunta "epopea", che ossessiona alcuni studiosi italiani e francesi, era così poco indolore che la prima stesura di Ottobre dovette subire le ben note, e mai "risarcite", mutilazioni. E anche la versione parziale non fu risparmiata. In effetti, il film era attaccabile sul versante della "celebrazione" come su quello della "fattografia". Al primo opponeva una veemente rilettura attuale del '17 («ci battevamo per obbligare la gente a tornare indietro di dieci anni»),al secondo un'esigenza di interpretazioneproposta delle linee di forza del passato rivoluzionario. Troppo "presentista" per gli uni, "passatista" per gli altri (secondo una nota distinzione di Trockij), Ejzenstejn fonde l'empito tendenzioso del "contemporaneo"con la tensione chiarificatrice dello storico. Aggredite, le immagini si cristallizzano in una distanza tagliente e non rasserenata, per tornare a sciogliersi e ad agire nella coscienza dello "spettatore". Ejzenstejn conferma che fare cinema nella > e per la rivoluzione significa, per lui, fare un cinema rivoluzionario nelle strutture e cadenze del linguaggio e nel rapporto emotivo-intellettuale con il destinatario: di qui il rifiuto della linearità narrativa e della mediazione psicologica, del travestimento aneddotico («Ottobre resta in sostanza un modello di soluzione su due piani: la "deaneddotizzazione" è in effetti un pezzetto di "domani", cioè un presupposto per il lavoro successivo: Il Capitale»). Protagonista del film è ancora la massa, sia nelle sequenze della repressione (un mare di teste e di corpi in fuga: citazione e svolgimento di Sciopero), sia in quelle della preparazione (lo Smolny) e della presa del Palazzo d'Inverno (con la loro trattenuta, espansa, tensione, quasi "insostenibile").
A questo mondo di facce, di pugni, di bocche aperte in un grido si oppone il mondo delle cose («Ottobre è un film sulla fine degli oggetti, su un mondo diverso, ma al tempo stesso descrive il vecchio mondo attraverso i suoi oggetti») e degli uomini divenuti - ridotti a - cose: la statua di Alessandro III (che si ricostituirà durante il governo Kerenskij), i Bonaparte di gesso, i bicchieri abbandonati sul tavolo del governo in fuga, i calici, i tendaggi, i drappeggi, le casse di croci di guerra, le antichità egiziane. L'"inalterabilità" della Sfinge, nella sequenza dell'apertura dei ponti, sembra compendiare questo universo della immobilità in una "fissazione" culturale inattingibile e mostruosa. Il Palazzo d'Inverno diventa il mausoleo del potere, della tradizione, della cultura, del passato, della storia fatta: la rivoluzione è storia in farsi, deve prendere possesso del vecchio, rovistarlo, giocarci (il ragazzo soldato che salta e ride sul trono degli zar), dissacrarlo (gioco e dissacrazione che torneranno in alcuni frammenti, altissimi, del Bezin). Il rapporto tra vecchio e nuovo è di aspra, irriducibile conflittualità (si veda l'accanimento con cui le signore borghesi - le stesse che, in abito bianco e con ombrellino, salutavano nel Potëmkin il momento "romantico" della rivoluzione? - infieriscono sul giovane bolscevico), scandita in momenti di alta tragedia: il cavallo sospeso dal ponte, la ragazza morta e il dettaglio dei capelli su cui la "camera" indugia con amore.
L'uso della metafora (la scala di Kerenskij, il pavone), della similitudine (i discorsi dei menscevichi e le corde dell'arpa), della sineddoche (le ruote delle biciclette di uno strepitoso Balla altrimenti contestualizzato), della serie (le immagini delle divinità e della loro "miseria", per cui ognuna di esse modifica e degrada quella che la precede, relativizzando il falso universalismo del Dio dei Kornilov) e, in genere, tutte le applicazioni del "cinema intellettuale" preludono a una poetica dello "straniamento" ante litteram: tra lo spettatore e lo schermo interviene, in funzione distanziatrice, un filtro di sarcasmo, di consapevolezza intellettuale che, mentre contrasta una fruizione sentimentale ed eroicizzante del passato rivoluzionario, lo restituisce alle alternative del presente. Anche la didascalia assume una scansione dialettica: l'«A tutti!» di Lenin diventa, dopo l'inquadratura del pope, un dubitoso «A tutti?» per riconfermarsi nella perentorietà dell'impulso iniziale. E tuttavia, Ejzenstejn è il primo a "drammatizzare" la rivoluzione, non certo come spettacolo ma come permanente presa del potere (il "travisamento", rispetto alla modestia dei fatti, della conquista del Palazzo), a sentirla come esperienza in atto, a respingerne la museificazione: anche attraverso il geniale riscatto delle "pantomime di massa" di Pietrogrado in una sorta di happening collettivo governato da una interpretazione calzante e continua. Ma anche attraverso i momenti di abbandono: le "pause" del battaglione femminile, una figura pensosa di anziana soldatessa accanto alla statua degli amanti di Rodin. E con la persistente suggestione, intellettualmente obiettivata, della compenetrazione di fasto e degradazione, compostezza e violenza, splendore mortuario e furia distruttiva (le soldatesse tra gli arredi del Palazzo, i fucilieri nella camera della zarina, sui divani; la distruzione degli oggetti).
Il montaggio, raccorciando gli intervalli e addensando i pieni dell'immagine, abbraccia una multilateralità di spazi storico-concettuali (Smolny/fuga di Kerenskij, Aurora/Palazzo, comitato centrale/strade e guarnigioni) che recupera ed esalta continuamente, nella complessività dell'avvenimento, le sue linee di tendenza e i punti di forza, le emergenze individuali/collettive contro la compostezza del "quadro", la rottura permanente contro la contemplazione pacificata. Gli "esperimenti", anche quelli "datati" o irrisolti, trovano qui, all'interno di questo disegno, la propria qualificazione: significato e significante, fatto e interpretazione, idea e immagine tendono a coincidere in una pregnanza di segno che si vuole totale, senza residui, si tratti di un'inflessione sarcastica (ancora il pavone) o di una riflessione in atto (ancora le divinità) o, con le parole di Ejzenstejn stesso, di una «costruzione parodistico-ironica» («"Dal grande al ridicolo il passo è brevissimo". Sia nella sostanza del fenomeno, sia nei principi della sua soluzione coniPositiva») Nella permanenza della scelta, il nesso attrazione-eccentricità è venuto svolgendosi e arricchendosi, nel tempo, come teoriaprassi del coinvolgimento/straniamento, della emozione/riflessione. Lo "shock" è soltanto una ferita, un attacco traumatico alla capacità di assuefazione (latente ed "eterodiretta") dello "spettatore" (cinematografico e no): il rimbalzo che esso provoca rinvia all'intelligenza e alla scelta, storicamente determinate ma non univoche, orientabili in una direzione di classe o nell'altra.
4. Nel dibattito del 1927, sul "Novyj Lef", Tret'jakov aveva nuovamente respinto la "rivoluzione" nei temi, che lasciava inalterati i "vecchi metodi di manipolazione": «Non c'è niente di più facile per un artista che cambiare tema. Cambiare metodo significherebbe diventare un altro uomo». È questa, la "linea generale" della ricerca e del lavoro di Ejzenstejn, anche se, apparentemente, rispetto a quel dibattito, egli assume una posizione mediana, di "compromesso": Ottobre è un film "recitato", almeno in parte, ma non organizzato intorno a una trama, a uno o più personaggi, a una storia o parabola esemplare (come accade, invece, in San Pietroburgo). In un articolo del 1928, Ejzenstejn ricorda che «tra i due litiganti chi ha ragione è il terzo»: tra il "film a soggetto" e il "film non a soggetto", «significa che il terzo ha ragione, cioè il film fuori soggetto, il film che si pone al di là del film a soggetto e di quello non a soggetto, il film che sta dritto sulle sue gambe, sulla sua terminologia anche se non è ancora ben definita». E le "gambe" del film, se non sono quelle del teatro e del romanzo, non sono neppure quelle della "cronaca", della "fabbrica dei fatti", ecc., se è vero che, per Ejzenstejn, «il feticismo della materia», subentrato al «feticismo estetico», «non è ancora materialismo». «Se nel precedente periodo dominava la materia, l'oggetto, che aveva preso il posto dell'"anima" e del "sentimento", la tappa successiva cambierà la presentazione visiva del fatto (la materia, l'oggetto) con le deduzioni ricavate da un fatto e con il giudizio sulla materia, concretizzati in idee finite. È ora che il cinema cominci a operare con la parola astratta ridotta a concetto concreto. La nuova tappa procede «sotto il segno dell'idea, sotto il segno della parola d'ordine».
Ripensare/riformulare l'Ottobre, e farlo attraverso certe scelte (la massa protagonista, il conflitto passato-presente, i concetti-parole d'ordine, la multilateralità dei registri epici, didascalici, epigrammatici, la coscienza metalinguistica esplicita ed esibita) significa, nel rifiuto della celebrazione, ritrovare la tendenzialità di "deduzioni" e di spinte che fanno corpo con gli avvenimenti, la "materia", ne scaturiscono e la orientano, fuori di qualsiasi mediazione delle vecchie drammaturgie. L'insistenza sull'"agitazione", nello straordinario saggio del '24 («La prima cosa che bisogna tener presente è che, al di fuori dell'"agitazione", il cinema non esiste, o meglio, non deve esistere») mentre conferma che, per Ejzenstejn come per Majakovskij, il problema di liquidare definitivamente «una letteratura che viene servita come dessert» è ancora aperto, mostra anche che la suggestiva considerazione di Jakobson a proposito dello scrittore («Il poeta capta il futuro con l'orecchio insaziabile, ma a lui non è dato di entrare nella terra promessa»)'' non è estensibile al regista di Ottobre. La teoria-prassi dell'"agitazione" è, al livello della "sovrastruttura" cinema e del suo linguaggio specifico ma non irrelato, un discorso il cui accento batte sul soggetto della rivoluzione, sulle potenzialità tuttora latenti e inespresse di questa. Discorso "solitario", "anacronistico", "arretrato", ecc. ecc.? Certamente, se e quando si assumeva - si assume - l'esistente come assolutizzazione del possibile. Ma non era proprio questo il rifiuto, materialisticamente, non idealisticamente, orientato di Ejzenstejn? Non era qui la valenza e la produttività, nel tempo, della sua non riconciliazione?




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giovedì 23 aprile 2009

Frankenstein contro l’uomo lupo di Roy William Neill


Title: Frankenstein contro l’uomo lupo
Director: Roy William Neill
Years: 1943
Genre: Fantastico


La Frase dal Film: "Ma questo è il segreto della vita! Non è questo che cercavo, non mi interessa la vita! Non sono una creatura artificiale io, sono un essere umano, ho del sangue umano nelle vene e ho diritto che la mia vita sia mortale!"

Frankenstein contro l'Uomo Lupo fu il quinto film della Universal a proseguire la saga dei Frankenstein e il secondo film (quindi il sequel diretto) de L'Uomo Lupo (1941). Ai primi tre film nella serie riguardante il Barone folle (ovvero Frankenstein, 1931; La Moglie di Frankenstein, 1935; Il Figlio di Frankenstein, 1939) era stato riconosciuto un notevole fattore creativo, mentre la quarta istallazione, Il Terrore di Frankenstein (1942), aveva rivelato tutti i limiti della storia ed il fatto che ormai l'originalità forse si era persa. Uno dei grossi problemi, era che le produzioni cinematografiche contemporanee alla Seconda Guerra Mondiale venivano private di molti fondi e di personale; dovendo comunque produrre qualcosa, si preferiva generare dei cloni o dei sequels low-budget che sfruttassero i precedenti successi. Una delle idee fu quella di fondere delle serie differenti fra loro. Frankenstein contro l'Uomo Lupo fu la prima di tali produzioni e questa nuova "doppia dimensione" portò una cifra d'originalità alle produzioni Universal, anche se sostanzialmente la struttura del film rimaneva sempre la medesima: il mostro tornava a vivere, qualcuno tornava a fare le veci del Barone Frankenstein, la gente si ribellava e spaccava tutto. Curt Siodmak, notissimo e valido sceneggiatore, qui fallisce però nel fondere in maniera originale i mondi dei due mostri e questa pellicola finisce per essere molto più un film "da licantropo" che "da Frankentein". A ben vedere il Mostro con le valvole al collo non ha un'importanza sostanziale nel plot e oltretutto è davvero forzato il fatto che Talbot, per risolvere un problema paranormale, debba ricorrere alle conoscenze di uno scienziato. Tutto succede per questioni poco logiche e piuttosto melodrammatiche: il cambiamento repentino d'idea del dottor Mannering, non ha motivo di essere; passa immotivatamente dal voler eliminare il mostro, a volerlo potenziare. Il cast non è pessimo ed è interessante far notare i vari ruoli in cui si sono trovati i medesimi attori: Lugosi, che aveva rifiutato di recitare nel film del 1931, recita nei panni di Ygor sia ne Il Figlio di Frankenstein che ne Il Terrore di Frankenstein. Lionel Atwill, memorabile ispettore dal braccio di legno ne Il Figlio di Frankenstein fece l'assistente del mad doctor ne Il Terrore di Frankenstein mentre in questo film ha il ruolo di sindaco. Lon Chaney Jr. fu L'Uomo Lupo nel film del 1941 e la Creatura ne Il Terrore di Frankenstein, mentre qui torna come licantropo. Grande confusione ma soprattutto pessima Creatura interpretata da Lugosi, probabilmente il peggiore Mostro di Frankenstein di sempre. Anche la regia di Roy William Neill, noto per aver diretto la maggior parte dei film di Sherlock Holmes per la Universal, non ha lo smalto di quella quella di Whale o di Rowland Lee. Frankenstein contro l'uomo lupo non è esattamente un horror "di paura" ma se non altro interrompe alcune stantie regole del genere il che consente di esplorare nuove percorsi narrativi, cosa che, a dire il vero, non è avvenuto nel modo in cui si sarebbe sperato. Le atmosfere del vecchio horror melodrammatico in bianco e nero, però, ci sono tutte. Film per appassionati, in tutti i casi sconsigliato l'acquisto.

I film della Universal sul Barone e la sua Creatura sono: Frankenstein (1931); La moglie di Frankenstein (1935); Il figlio di Frankenstein (1939); Il terrore di Frankenstein (1942); Frankenstein contro l'Uomo Lupo (1943); Al di là del mistero (1944), La casa degli orrori (1945), e il comico Il cervello di Frankenstein (1948).

FORSE NON TUTTI SANNO CHE...

La prima stampa del film includeva Lugosi che, nei panni del mostro, diceva alcune parole. Al test sceening, però, il pubblico trovò che l'accento di Lugosi (ungherese) fosse ridicolo uscendo dalla bocca del mostro, così le battute dell'attore furono cancellate. E' divertente il fatto che Lugosi aveva rifiutato la parte del mostro nel Frankenstein del 1931 proprio per il fatto che la creatura non proferisse parola (oltrettutto non amava che il suo volto fosse coperto da un trucco pesante). Comunque, cancellando i dialoghi, vennero eliminati i riefrimenti alla cecità del mostro, un effetto secondario dell'impianto del cervello di Ygor nel Mostro che si vede alla fine de Il terrore di Frankenstein (1942). A causa di ciò non viene neppure spiegata l'andatura rigida con le braccia a penzoloni della Creatura, camminata che diventerà uno "marchio di fabbrica" del icona cinematografica. Esistono molte foto che testimoniano l'esistenza delle scene tagliate: ad esempio ci sono degli scatti che mostrano la Creatura e Talbot i quali, vicino ad un fuoco nella grotta ghiacciata, parlano; è in quel momento che Talbot ed il pubblico sarebbero veuti a sapere che la Creatura è ancora cieca. Nella metà degli anni '80 fu compiuta una ricerca nei magazzini della Universal per cercare di trovare stampe o negativi della versione originale ma non è mai stato trovato nulla.

Inizialmente, Lon Chaney doveva fare sia la parte del licantropo che quella del mostro di Frankenstein, però per questioni di tempo realizzativo si decise altrimenti. Eppure, in un'intervista rilasciata successivamente, Chaney sostenne che in alcune scene aveva fatto entrambi i mostri.

La prima volta che si vede il mostro sullo schermo non si tratta di Bela Lugosi, ma dello stuntman Eddie Parker che sostituì Lugosi anche nelle scene di lotta con l'Uomo Lupo.

Il film fu girato durante la Seconda Guerra Mondiale. Lo sceneggiatore e soggettista Curt Siodmak era un ebreo tedesco scappato dalla Germania in seguito alla proclamazione delle leggi raziali. Siodmak cambiò deliberatamente il luogo dell'azione dalla Germania ad un posto di fantasia chiamato "Vasaria", nome che potrebbe essere vagamente tradotto come "posto dell'acqua", il che si rifà alla presenza della diga.





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lunedì 20 aprile 2009

Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick


Title: Eyes Wide Shut
Director: Stanley Kubrick
Years: 1999
Genre: Drammatico


Attesissimo, beatificato a priori, questo film ha chiuso tre parabole: ricerca, carriera e vita. È quasi naturale che Kubrick, dopo tanto rigoroso, totale, maniacale e mistico impegno, non gli sia sopravvissuto. È un altro allarmante elemento del mito di Eyes Wide Shut e dell'autore, che ha sempre fatto film diversi, affrontando (e risolvendo a modo suo) questo e quel tema della vita e del cinema. Qui pone il suo suggello, la verità ultima, sul sesso, che è certamente più importante, per fare un solo esempio, della fantascienza. Il regista si ispira a un racconto di Arthur Schnitzler, Doppio sogno, ambientato nella Vienna degli anni venti, e traspone la vicenda nella New York dei giorni nostri. Alta borghesia, alto censo, belle case, bella gente. Cruise è il medico William Harford, e Kidman è sua moglie Alice. A un party la coppia corteggia e si fa corteggiare (venialmente), ma tornando a casa lei gli confessa di aver recentemente provato un'attrazione irresistibile per un ufficiale. William sembra sorriderci, ma la rivelazione lavora sulla sua coscienza e nei suoi incubi. Immagina la moglie in atti sessuali con l'ufficiale. Cambia il suo rapporto con il sesso, cede alla corte della figlia di un suo paziente, esce nella notte e incontra una prostituta, non resiste alla tentazione di partecipare a un'orgia. Anche il sesso con sua moglie si trasforma. E anche la sua vita si trasforma. Perché il sesso è una cosa seria e misteriosa, dolorosa e, soprattutto (ed ecco Kubrick) pensata. Il sesso è di certo a lungo e fortemente rappresentato, ma Kubrick si è abbondantemente guadagnato la franchigia di artista (come Fellini), dunque lo stile tutto soccorre. Tuttavia l'autore, per la versione americana, ha nascosto certi particolari. Potrebbe essere inteso come una sorta di metafora del dispetto, di un americano che ha scelto di vivere a Londra e che da tempo non ha voluto far cinema negli USA, mecca del cinema: "le nascondo l'essenza, che tengo per gli evoluti europei". Il resto è ormai cronaca-leggenda, appunto: i quasi tre anni di lavorazione, certi attori assunti poi protestati, come Keytel e Malcovich, e le crisi matrimoniali-sessuali di alcuni protagonisti, a cominciare dalla coppia regina Tom-Nicole. Chissà se è tutto vero.





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domenica 19 aprile 2009

Disastro a Hollywood di Barry Levinson


Title: Disastro a Hollywood
Director: Barry Levinson
Years: 2009
Genre: Commedia


Due settimane nella vita di Ben, un produttore hollywoodiano, che, oltre a doversi confrontare con un secondo divorzio mai del tutto accettato, ha davanti a sé due progetti decisamente non semplici. Nel primo caso si tratta di un film già montato da un regista particolarmente irritabile ed attaccato al proprio lavoro. Il protagonista Sean Penn nel finale deve morire ma, prima di lui, è il suo fedele cane a fare una brutta finein primissimo piano. Il pubblico delle prewiew non gradisce e ancor meno apprezza Lou, a capo dello studio che dovrebbe distribuire il film. Riuscirà Ben a convincere il regista a togliere la scena incriminata?
Il secondo problema che Ben deve affrontare è altrettanto complesso: ha in preproduzione un film con Bruce Willis protagonista. L'attore, che si è fatto crescere una fluente barba che lo rende pressoché irriconoscibile, non ha la benché minima intenzione di tagliarsela. Chi invece dovrebbe investire i propri dollari nel progetto è pronto ad annullare tutti i contratti (con relative penali anche per Ben).
È a partire da queste situazioni che si dipana una vicenda che vede De Niro mettere in gioco tutte le sue doti istrioniche confrontandosi con un cast stellare in cui due colleghi (Penn e Willis) interpretano con grande autoironia il ruolo di se stessi.
Il meccanismo narrativo del cinema nel cinema sembrava ormai così ripetitivo e usurato da non poter trovare nuovi percorsi. Barry Levinson dimostra che non è così evitando in gran parte gli ammiccamenti agli addetti ai lavori e proponendo una commedia brillante che può divertire il grande pubblico il quale, chiamato con un sorriso a spiare dal buco della serratura del 'dorato' mondo di Hollywood, può vedersi spiegato come ogni film (in particolare in quella macchina tritasassi che è la Mecca del Cinema) sia il frutto di una molteplicità di dinamiche che non sempre agiscono in favore della sua riuscita.
Divertitevi davanti alle azzeccate caratterizzazioni di Turturro e Tucci e all'uscita non vergognatevi di averlo fatto come purtroppo è accaduto alla critica internazionale al Festival di Cannes che ha assistito alla proiezione sorridendo e spesso ridendo ma alla fine ha negato l'applauso.





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La vita segreta delle api di Gina Prince-Bythewood


Title: La vita segreta delle api
Director: Gina Prince-Bythewood
Years: 2009
Genre: Drammatico


Non ha certo tutte le sicurezze del mondo la piccola Lily che a 4 anni spara alla madre per errore ed è costretta a passare i seguenti 10 anni con un padre che non le vuole bene e non manca mai di farlo notare. Così quando la misura è colma scappa per intraprendere un viaggio alla scoperta delle proprie radici (sulle orme di uno simile fatto dalla madre) assieme alla sua badante di colore proprio nell'anno della firma della dichiarazione dei diritti civili per gli afroamericani. Ad accoglierla in un nuovo alveo familiare saranno tre sorelle di colore che producono miele, ma nonostante il benessere Lily imparerà che una cosa è firmare un pezzo di carta e una cosa è farlo diventare realtà.
Curioso come la prima scena di La vita segreta delle api sia palesemente identica a quella d'apertura di Mean streets. È l'unico punto di contatto tra un film indipendente e dirompente come quello di Scorsese e quest'opera acquietante e rassicurante che si impone di insegnare allo spettatore il suo punto di vista attraverso le piccole pillole di saggezza poetica messe in bocca ai protagonisti (per lo più contadini) e i tanti ricatti emotivi. In questo senso si rivela molto onesta la scelta di un titolo (mutuato dal libro cui si ispira) da documentario scolastico.
È il modus operandi tipico attraverso il quale l'America riflette e tramanda la propria storia al cinema. Non dal punto di vista del suo svolgimento (o da quello di una sua rilettura come siamo soliti fare noi) ma dal punto di vista sentimentale. L'oggetto del film non sono i fatti che portarono alla firma della dichiarazione dei diritti civili nè le battaglie degli afroamericani (al massimo c'è qualche riferimento pop per inquadrare la questione) ma cosa significò emotivamente tutto ciò.
Per arrivare a questo la regista Gina Prince-Bythewood sceglie un cast di star di colore (per lo più cantanti) e fa affidamento solo su di esso. Tutto ciò che il film si propone di comunicare passa attraverso gli attori, non esistono altre possibli soluzioni per una regia totalmente anestetizzata e incantata sui loro volti. Fortuna che a dare uno scampolo di credibilità al tutto c'è Dakota Fanning, che già a 14 anni è uno dei più straordinari volti drammatici che si possano considerare oggi.
Tutto nel film va incontro allo spettatore per confermare ciò che egli già pensa e rafforzarne le idee. Il casting (la matrona in carne, la giovane attivista bella e la sorella debole un po' bruttina ma dal gran sorriso), i personaggi (tutti a senso unico e privi di evoluzione), l'intreccio (che arriva fino all'implausibilità pur di non sorprendere) e i sentimenti in gioco ("Desidero solo essere amata da qualcuno!").
La rilettura hollywoodiana della storia emotiva del paese è anch'essa una forma di racconto archetipico che ha le sue maschere fisse e La vita segreta delle api non se ne fa sfuggire una per raggiungere il suo obiettivo (un sorriso per ogni lacrima) nella maniera più facile e sicura. Annacqua ogni conflitto imprevisto e ammorbidisce anche i momenti più aspri e drammatici annunciandoli per tempo prima di mostrarli, così da coccolare lo spettatore mentre lo rassicura ancora a suon di semplici sorrisi e tenere lacrime.





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venerdì 17 aprile 2009

Quarto potere di Orson Welles


Title: Quarto potere
Director: Orson Welles
Years: 1941
Genre: Drammatico


Quarto potere desta ammirazione, meraviglia e quella sorta di stordimento che sempre si prova al cospetto delle opere d’arte di cui si avverte che sanno comunicare ed esprimere persino al di là dell’esprimibile.


Se c'è un film, nella Storia del Cinema in bianco e nero del predopoguerra, di cui si può predicare che sia stato perfettamente costruito nella sceneggiatura, nella messa in scena e inquadratura del profilmico e nella postproduzione del montaggio, questo film è senz'altro Quarto potere, primo lungometraggio diretto (e interpretato) da Orson Welles nel 1940 a soli 26 anni. Prima di Citizen Kane - il titolo originale del film -, il cineasta Welles si era sperimentato in un primo tentativo adolescenziale di quattro minuti, intitolato I cuori dell'età, diretto nel '34 assieme a William Vance, e poi in quel Troppo Johnson, di 40 minuti, girato nel '38 per una rappresentazione del Mercury Theatre di New York e, di fatto, mai presentato al pubblico. Stupisce, allora, che, nel '41 - per mano di un giovane riconosciuto già talentuoso per le esperienze teatrali e radiofoniche ma, di certo, non troppo esperto nelle cose del cinema -, sia dato alla luce un film che, ancora oggi, sembra sfiorare la perfezione, anche se l'opera, va riconosciuto, passò allora sotto silenzio - a parte l'entusiasmo della critica più avveduta - e rappresentò, in tutta sostanza, un flop commerciale. Di fatto, e a maggior ragione al vaglio di ripetute visioni, Quarto potere desta ammirazione, meraviglia e quella sorta di stordimento che sempre si prova al cospetto delle opere d'arte di cui si avverte che sanno comunicare ed esprimere persino al di là dell'esprimibile.

Provando a scomporre e a osservare un tessuto di segni che - diciamolo subito - non sembra poter trovare in nessun approccio metodologico un punto di vista che riesca a ridurre a interpretazione univoca l'esuberante ricchezza di un testo oltremodo articolato, si può affermare, tuttavia, che la prima qualità di Citizen Kane - che, in qualche modo, non può non saltare agli occhi - è la sua composizione simmetrica. In tale prospettiva, al di là della consuetudine analitica che concentra l'attenzione sulle eco simboliche della parola Rosebud (di cui, ovviamente, parleremo), il segno ricco del senso più autentico e, assieme, contraddittorio del film - contraddittorio perché, nella sua lettera, nega che il film possa avere accesso a qualsivoglia tipo di senso esprimibile e, dunque, pone in giudicato film e cinema come strumenti affidabili di comunicazione di conoscenza - è quell'inquadratura un po' sghemba che, subito, a inizio film, focalizza un cartello, apposto al reticolato di protezione della tenuta di Xanadu, che riporta la scritta No trespassing e che si ripete, a sigillo dell'opera, alla fine esatta del film. All'inizio, la macchina da presa si alza con un dolly a superare in altezza il cartello e il reticolato, quasi a dire che si tenterà d'andare a scoprire i misteri che si celano dietro Xanadu e il suo costruttore. Alla fine, lo stesso dolly scende di nuovo, lungo l'area del reticolato, fino a reinquadrare quell'insegna che, adesso, assume un senso prorompente, come a dire che tutto il film, allora, si è retto su una splendida illusione, quella di comprendere nel profondo la realtà individuale del personaggio Charles Foster Kane: operazione impossibile, però, e già annunciata, all'inizio, da quel segnale che diceva, appunto, No trespassing, non oltrepassare o, anche, non passare di là, perché, tanto, di là dal reticolato, non c'è modo di recuperare una verità sui fatti e sugli uomini ma, soltanto - come dice un personaggio a fine film -, l'insieme caotico di frammenti e cose che vanno a comporre un puzzle cui mancherà, però, sempre un incastro.
Insomma, Quarto potere, a inizio film, enuncia, con il movimento della macchina da presa che infrange il divieto del No trespassing, il diritto/dovere del mezzo cinema di provare a restituire un senso, attraverso i mezzi dell'inchiesta, ai noumeni della realtà, per rinnegare alla fine, però, questo stesso postulato e dichiarare, sigillando l'opera con la ripetizione simmetrica di quel segnale iniziale, che la realtà è inconoscibile, almeno in profondità, e ciò che si può dire attiene solo la superficie, il fenomeno, ossia ciò che si può vedere senza avere l'ambizione - o la übris - di trespassing.

Con i mezzi dell'inchiesta, abbiamo detto. Perché, di fatto, Citizen Kane, da un punto di vista diegetico, si srotola come una ricerca condotta da un gruppo di giornalisti al fine di cercare di effigiare con più precisione la figura di Charles Foster Kane - interpretato dallo stesso Welles -, esempio controverso di magnate della stampa, uomo politico, opinionista e titolare di un enorme impero economico, la cui recente morte, nell'impianto narrativo del film, si pone, appunto, come pretesto per un ripensamento, oltre che di un periodo della Storia Americana, anche e soprattutto delle contraddizioni d'una personalità titanica perennemente al confine tra il Bene e il Male o, per meglio dire, tra l'Amore e l'Odio dei suoi concittadini. Così, dopo il racconto altamente stilizzato e sintetico della morte di Kane, ormai solo e abbandonato a se stesso, nella sua reggia di Xanadu - dentro una sequenza quasi onirica segnata dalle tracce evidenti di uno stile espressionista recuperato quasi alla lettera -, ecco che, con un improvviso cambio di marcia, il film presenta News on the March, un cinedocumentario girato da alcuni giornalisti di non si sa quale testata sulla vita e la morte di Kane. Non solo il documentario proiettato, incastonato nel film quasi fosse un controcanto alla sequenza iniziale, produce una sorta di shock percettivo, con la sua incalzante voce fuori campo che commenta apparenti immagini di repertorio montate col ritmo vertiginoso del cinegiornale d'epoca, producendo uno di quei salti di stile che si riveleranno essere, poi, una costante di quel patchwork che è Quarto potere. E non solo il film, allora, si presenta come inchiesta addirittura alla seconda, visto che i giornalisti protagonisti del film - e in particolare Jerry Thompson, che sarà la funzione attraverso cui si tenterà di ricucire i pezzi d'una personalità che, come abbiamo detto, non si presenterà mai nella sua interezza - indagheranno sul reale d'una vita con l'obbiettivo, per l'appunto, di integrare una già esistente ricostruzione cinegionalistica di quella vita stessa. Soprattutto, il rullo di cinegiornale porrà subito in evidenza i limiti di conoscenza del mezzo cinema. Alla fine della proiezione, infatti, il caporedattore Rawlston sarà costretto ad affermare che il documento è incompleto, perché racconta ciò che Kane ha fatto e non chi veramente fosse - a dire che il cinema è a suo agio nel raccontare le azioni degli uomini ma è a disagio nel ricostruire i profili psicologici esaustivi dei suoi personaggi. E qui si ritrova, allora, la grande e definitiva novità del primo lungometraggio di Welles. Perché l'obiettivo, per i giornalisti di News on the March, diventerà, allora, tentare d'arrivare all'essenza dell'uomo Kane, per comprendere, al massimo della profondità, le ragioni fondamentali che avevano fatto sì che la sua vita, in termini di azioni, si fosse concretata in un certo modo piuttosto che in un altro. Cioè a dire, insomma, che Quarto potere si configura, forse, come il primo grande film dichiaratamente psicologico, se non addirittura psicanalitico, della Storia del Cinema, perché, per l'appunto, l'idea che muove i personaggi/giornalisti che indagano su Charles Foster Kane parte dal presupposto che la verità di un uomo risiede nel suo grumo affettivo, nella sua qualità psicologica, scoperta la quale la verità che poi è l'essenza umana non può non venire alla luce. Si tratta, in altri termini, della ricerca non tanto del carattere, che, nella storia della psicologia, soprattutto d'impronta illuminista, rappresenta un insieme coerente di caratteristiche ricorrenti e perciò propense, natura rerum, a un processo di classificazione più o meno sommaria; si tratta, piuttosto, dell'esplorazione volta a cogliere l'individualità irripetibile della persona, la sua qualità unica e senza uguali, secondo una modalità di approccio psicologico che, infine, sembra non aver molto a che fare con Jung - almeno con il Jung vulgato -, poco con il Freud che tendeva a compendiare le tipologie dei complessi e, tanto, invece, con quella filosofia spiritualistica che, da Leibniz a Bergson, si era industriata a riconoscere, in ogni essere umano, la singolarità qualitativa della monade o dell'immagine-movimento che esibisce la sua opacità nel turbine metafisico di quel piano d'esistenza (il mondo) saturato dalle infinite altre e diverse immagini-movimento. Vedremo, poi, che, comunque, a un livello un po' più superficiale, Freud, apparentemente escluso dalla scena, finirà per rientrare in gioco. Il dato fondamentale, però - peraltro simmetrico al dolly iniziale che scavalca il reticolato -, è che Quarto potere, nella sua struttura diegetica - e cioè: con l'inchiesta promossa da Rawlston e fattivamente adempiuta da Thompson -, ha l'ambizione di individuare, nel modo più pertinente possibile, la profondità psicologica di un personaggio. Assunto dichiarato, dunque, anche dal racconto ma, come abbiamo visto, negato, a un livello concernente la simbologìa - per un film tutto costruito sulla negazione degli enunciati espressi -, dalla doppia occorrenza di quel No trespassing che, alla luce di queste ultime considerazioni, acquisisce - a rinforzo - un'efficacia talmente performante rispetto alla consapevolezza metalinguistica sulle capacità di conoscenza del Cinema (ma direi: dell'essere umano come soggetto di conoscenza) da attribuire al film d'esordio di Welles non solo il valore d'opera d'arte ma anche di modernissima riflessione filosofica.

L'inchiesta sull'uomo Kane - piuttosto che sul cittadino: come, invece, farebbe presupporre il titolo originale - si concentra, allora, sul valore simbolico di disvelamento che può assumere l'ultima parola pronunciata da Kane un attimo prima di morire: la parola è Rosebud, maldestramente tradotta, nella versione italiana, Rosabella. L'ipotesi di Rawlston, Thompson e degli altri giornalisti obbedisce al seguente postulato: comprendendo nel profondo l'importanza qualitativa e personale del termine Rosebud sarà possibile, finalmente, attribuire a chi l'ha pronunciato una qualità specifica e non contingente, un'individualità finalmente trasparente che possa andare ben al di là del complesso torbido ed enigmatico di caratteristiche che emerge dall'analisi della prassi caotica delle azioni del personaggio Kane. Tutto il segreto, dunque, in una parola, secondo un'ottica semiotica d'impronta quasi medievistica, come se, davvero, si potesse sostenere che nomina sunt res e che i vocaboli racchiudono sensi e significati talmente esaustivi da rendere comprensibile, con la loro semplice occorrenza, il mondo come macrocosmo o, almeno, quel mondo, limitato nel tempo e nello spazio, che è l'esistenza microcosmica dell'essere umano. Ennesima illusione, come vedremo, perché dal disvelamento del senso di Rosebud - privilegio di conoscenza concesso, peraltro, solo a noi spettatori - potremo semplicemente farci un'idea dell'origine (stavolta freudiana) di alcune peculiarità caratteriali del personaggio Kane, senza, comunque, poter sostenere che tutto ciò che sappiamo di Kane possa davvero essere riconducibile e, in qualche misura, ridotto alla eco metaforica del termine Rosebud. «Non basta una parola per spiegare il mistero di un uomo» declama alla fine, in modo forse eccessivamente didattico, quel Jerry Thompson che non è stato capace di ricomporre il rompicapo di cui Rosebud sembra rappresentare, adesso, nulla più se non uno dei tanti pezzi mancanti. E noi, che pur ne sappiamo - o ne stiamo per sapere - qualcosina di più, non possiamo che annuire e prendere atto della sostanziale inconoscibilità della qualità della realtà e della natura umana.

Ma il film, come detto, è l'inchiesta, e l'inchiesta è fatta a puzzle, alla ricerca delle tessere che possano ricomporre un mosaico - e, del resto, il rompicapo sarà la figura retorica emergente dell'ultima parte del film, soprattutto da quando il puzzle diverrà il passatempo preferito della seconda signora Kane; e, da un punto di vista diegetico, la macrofigura dell'inchiesta a puzzle si manifesta, dunque, negli incastri prodotti da cinque diverse interviste a personaggi che hanno vissuto da vicino l'epopea di Kane. Le cinque diverse interviste danno luogo a cinque diversi flashback - il quale diventa, così, lo strumento narrativo per eccellenza di Quarto potere, usato, peraltro, con tanta perizia di incroci e rimandi da anticipare, in qualche modo, quello che, negli anni Cinquanta, sarà il vero e proprio capolavoro del film di flashback, e cioè Rashomon di Akira Kurosawa.
Dal primo intervistato, il banchiere e tutore Walter Parks Tatcher (intervistato in contumacia, potremmo dire, perché di lui, nella stanza austera della Biblioteca Thatcher, Thompson si limita a leggere le memorie, che pur introducono, direttamente dalle parole autografate sul manoscritto - strabiliante arditezza per l'epoca! - autentici flashback d'informazione sull'infanzia e la prima giovinezza di Kane) -, impariamo a conoscere lo stato d'infantile serenità di Kane bambino, nella sua casetta innevata, abitata con i genitori, in una landa sperduta del Colorado; ma giungiamo ad essere informati, anche, delle contraddizioni d'un'educazione impartita in modo un po' paranoico da una madre premurosa ed ansiosa e da un padre ruspante ma imbelle e scioccamente autoritario; e, infine, discerniamo - quasi fin dall'inizio dell'inchiesta -, quello che fu il trauma dei traumi, e cioè il distacco dai genitori, i quali, venuti in un possesso d'una gigantesca fortuna, decidono, per l'appunto, di affidare il piccolo Charles alla tutela della Banca di Thatcher, perché possa crescere nella frequentazione delle migliore scuole del mondo per giungere preparato, poi, allo scoccare della maggiore età, ai doveri d'amministrazione di una tra le più importanti fortune economiche d'America. Si tratta di un tuffo in medias res, dunque, perché fin d'ora sappiamo che Kane ha subito, all'età di nemmeno dieci anni, il massimo turbamento di cui possa soffrire un bambino: essere abbandonato privo dell'Amore di cui ogni piccolo ha diritto, in cambio della promessa d'una fortuna materiale troppo di là da venire nell'orizzonte del qui e ora della fanciullezza. Kane bimbo, insomma, cresce nel Trauma d'Amore, e patisce il dolore di vedersi abbassato dallo status di soggetto che Ama e vuol essere Amato a quello di oggetto cui si dà valore solo come investimento destinato a fruttare immensi profitti economici: una svalutazione del valore della persona che segnerà per sempre - come vedremo - ogni piccola azione od emozione del Kane fatto uomo.

Grazie al punto di vista del personaggio di Bernstein - interpretato da un incisivo Everett Sloane -, Kane ci mostra il volto di uomo volitivo, intraprendente e spregiudicato. Bernstein è stato, per decenni, il direttore di redazione del giornale di Kane, quel «New York Inquirer» attraverso il quale il vulcanico personaggio di Welles ha messo alla prova le opinioni, le convinzioni e le emozioni non solo dei concittadini ma di tutta l'America e, in qualche misura, persino del mondo occidentale. Dai racconti di Bernstein è impossibile non comprendere che il quotidiano, per Charles Foster Kane, era stato lo strumento privilegiato per il cui mezzo l'editore e giornalista aveva tentato ogni possibile strada per convincere il pubblico - o, almeno, la maggioranza del pubblico - del fatto che le proprie parole ed azioni erano sempre dettate da sincero Amore per il prossimo e che, per questo motivo, il prossimo, chiunque egli fosse, non poteva esimersi dal restituire Amore a Charles Foster Kane. «Kane ha sempre fatto tutto per Amore» sussurra Bernstein, durante il suo colloquio con Thompson «e per Amore ha sempre perduto tutto ciò gli era capitato di possedere». Formula sintetica ma precisa per definire la specifica coazione a ripetere del personaggio Kane, che lo ha sempre condotto, quasi fosse una macchina, a ripercorrere quell'itinerario d'Amore e di Perdita che aveva segnato, così nel profondo - come abbiamo visto -, il momento clou della sua fanciullezza. Il quotidiano, allora, e la stampa in generale - il «quarto potere» del fuorviante titolo italiano - si mostrano, allora, nell'unica vera funzione cui vogliono assolvere, al di là d'ogni altra considerazione sociologica o politica: ricucire, con l'affetto d'ogni giorno dei fedeli lettori, lo strappo originario di quell'Amore troppo presto perduto.

Johnatan Leland - cui dà volto un giovane Joseph Cotten già persuasivo ed elegante - è il terzo intervistato. Era stato l'amico d'infanzia di Kane, il sodale di vecchia data, il compagno e il confidente con il quale Kane aveva maramaldeggiato, da discolo impenitente, nei collegi più importanti d'America e d'Europa. Con Kane, aveva condiviso l'avventura della nascita, della crescita e dell'esplosione di popolarità del «New York Inquirer», diventandone, fin da subito, l'apprezzato critico drammatico. Inoltre, negli anni della Grande Guerra, era stato tra i consiglieri e i maggiori attivisti della campagna di Kane per la corsa - fallita - al governatorato di New York. Di fatto, però, la funzione importante di Leland consiste, soprattutto, nel rappresentare, man a mano che la narrazione procede, il segno d'una coscienza in opposizione, ove Kane può specchiarsi con la certezza di ritrovare in essa tutte le contraddizioni del proprio essere, per giunta ben enunciate da Leland, enucleate con ordine; il personaggio di Cotten pare acquisire, così, il ruolo dello psicanalista interno alla diegesi, colui che mette a nudo, anche e soprattutto di fronte a Kane, le insicurezze e le interne conflittualità del protagonista. Non a caso, Kane nutrirà sempre, nei confronti di Leland, una sorta di Amore sublimato, che poi, a ben pensarci, assomiglia molto a quel sentimento di transfer che per Freud era addirittura elemento necessario al rapporto tra paziente e psicanalista. L'equilibrio, l'onestà, la serenità, l'ironia e la bastevolezza a se stesso che contraddistinguono, per tutto il film, il personaggio di Leland entrano, di minuto in minuto, sempre più in conflitto con la montante nevrastenìa di Kane e fungono, per così dire, da coscienza critica nei confronti della disonestà nel desiderio d'ostentazione d'onestà che è tipica di Kane; o da calmiere temporaneo rispetto all'ossessione d'essere amato che è il tratto distintivo della psicologia del protagonista e che fa essere quest'ultimo, a ragion veduta, uno dei primi personaggi compiutamente nevrotici della Storia del Cinema; o, anche, da censore severo nei confronti dei tratti più sprovveduti e melodrammatici della personalità di Kane, tratti che emergono, con forza, per esempio, nell'opposizione autolesionista alla trappola di Gettis - che rovinerà la sua carriera politica - o nella reazione oltremodo scomposta all'abbandono della seconda moglie.

La seconda moglie, appunto. Susan Alexander è la quarta intervistata - ma, in fin dei conti, la storia del suo matrimonio con Kane non aggiunge molto a ciò che, a questo punto del film, di Kane sappiamo già. Le vicende del loro rapporto sentimentale funzionano da rafforzo e incalzano più da vicino gli esiti estremi della psicologia del controverso protagonista: nel rapporto con Susan Alexander, Kane raggiunge picchi apicali sia nel suo voler essere amato a tutti i costi (gli sforzi titanici e sovrumani volti far diventare Susan una cantante d'opera obbediscono al duplice obiettivo di realizzare un sogno della giovane donna così da farsi amare più intensamente da lei ma anche di raccogliere l'amoroso consenso del pubblico stavolta attraverso interposta persona: la moglie, appunto) sia nella tendenza autodistruttiva dell'isolamento dal mondo, che, per l'appunto, scatta quando il protagonista si rende conto che il mondo non lo desidera più (diventa inderogabile, allora, la scelta della fuga nel monstruum architettonico di Xanadu: definitivo abbandono del mondo reale, troppo anarchico nella sua indomabile mutevolezza, per un universo artefatto e costruito a bella posta, stipato di feticci, idoli e simulacri eppure sicuro e solido nella sua mortifera immobilità). Susan , poi, ci regala una battuta che è forse la più bella del film e, in qualche misura, anche la più significativa. Quando Thompson, durante l'intervista, dice a Susan «Sa che io provo un po' di pena per il signor Kane?», la donna alza gli occhi al cielo, in postura tipica da melodramma, e poi, quasi sussurrando a mezza voce, lascia fluire l'emozione dentro quel «E io no?»: parole che rappresentano l'esatta sineddoche del sentimento che scaturisce, e non può non scaturire, dal principio d'immedesimazione spettatoriale.

Con l'ultima intervista, quella cui è sottoposto Raymond, il maggiordomo di Xanadu - figura solo in apparenza marginale -, il cerchio (almeno per noi spettatori) sembra finalmente chiudersi. Raymond racconta, infatti, che Kane, sconvolto dall'inaspettata fuga di Susan Alexander, si era prima lasciato andare ad un accesso d'ira e di disperazione che lo aveva spinto a mettere a soqquadro la stanza della moglie. In realtà, Raymond conferisce (se non altro a noi spettatori che avremo l'agio di poter vedere l'inquadratura finale) gli strumenti definitivi occorrenti a comprendere, finalmente, il mistero di Rosebud; ci racconta, infatti, che nella furia distruttiva scaturita dall'abbandono subito, Kane si era acquietato solo e soltanto quando, tra i soprammobili della moglie, si era imbattuto in una palla di vetro con dentro il paesaggio di una casetta circondata dalla neve; e che, stringendo forte l'oggetto, con le lacrime agli occhi, aveva sussurrato per la prima volta il termine Rosebud, che poi, come detto, pronuncerà di nuovo un attimo prima di morire. Quella parola, allora, diventa un indice. In una sorta di montaggio psicologico che noi spettatori non possiamo esimerci dal fare, adesso capiamo che quel termine, evidentemente, ha molto a che vedere con il ricordo dell'infanzia serena in Colorado e, di converso, nell'ambivalenza che è tipica dei sentimenti più profondi, col Trauma dell'Amore perduto. Rosebud è un'entità che, probabilmente, doveva far parte della situazione di originaria felicità vissuta nella casa dei genitori; nel contempo, però, con gli anni, quella stessa entità aveva accumulato su sé tutto il dolore dello strappo affettivo, giungendo a farsi simbolo della Perdita d'Amore che, come abbiamo visto, è il complesso psicologico che muove tutti i passi di Kane. Per noi spettatori, tutto diventa, infine, chiarissimo quando, tra gli innumerevoli oggetti che erano appartenuti a Kane e che, infine, nello sgombero definitivo di Xanadu, vengono gettati al macero, scorgiamo, tra le fiamme di un camino che brucia statue, monili e cianfrusaglie, una vecchia slitta consunta - che è senz'altro la slitta con cui giocava Kane bambino in Colorado - su cui, guarda caso, prima che il fuoco prenda piede, riusciamo a leggere, proprio, il termine Rosebud. Ecco, allora, il segreto: Rosebud è un vecchio strumento di gioco che, con gli anni, ha assunto il valore fantasmatico di oggetto transazionale ovvero di feticcio che nasconde la mancanza ma, nascondendola, la esibisce e, sottotraccia, la manifesta per metonimia; e tale mancanza - ormai lo sappiamo - è quella dell'Amore mai più ritrovato.
Ecco allora che il film si svela, alla fine del suo minutaggio, come opera che ragiona sui frammenti, i simboli e i feticci che, in alcuni casi, sono l'espressione migliore d'una personalità. Tali frammenti - splendidamente suggeriti proprio dalla struttura a puzzle della diegesi - ricostruiscono, a posteriori, l'identikit d'un'individualità la cui Paura originaria e costante è, appunto, la Paura della Perdita d'Amore (in un senso strettamente edipico: il Terrore della Perdita dell'Amore della Madre) e il cui Desiderio è ritrovare la Pienezza dell'Amore Perduto: desiderio destinato a non trovare mai soddisfazione, nella misura in cui in cui l'Amore Perduto ha qualità talmente diafane e pure da non poter essere rintracciato dentro il Reale ma, solo e soltanto, al livello del Regime d'espressione, a-concreto ed astratto, del Simbolico umano. Ecco, allora, alla fine dei conti, la tragedia di Kane: la ricerca inesausta di un Amore che, proprio per il suo appartenere ad una sorta di metafisica personale del ricordo, è condannato a non poter mai essere raggiunto. Noi sappiamo, però, che questa lettura, che abbiamo or ora illustrata, del complesso d'Amore di Kane è solo un aspetto possibile dell'interpretazione di una personalità che, in quanto tale, resta sempre al di là del conoscibile e dell'esprimibile: sarà questa la conclusione cui, infine, giungerà l'inchiesta di Thompson, ribadita, peraltro, all'inizio e in chiusura di film, dalle occorrenze ripetute di quel No trespassing, che ci appare, così - come abbiamo già detto - il segno che racchiude, in modo oltremodo sintetico, il vero senso dell'opera d'esordio di Welles.

Alcune scelte stilistiche di Welles e Toland - il direttore della fotografia - confermano, in maniera indiretta, l'idea - antirealistica - che del reale si possa certo fare indagine a patto che non si abbia la pretesa di individuare un senso univoco della realtà. Quest'ultima, per Welles, ha sempre un'infinita pluralità di piani spaziali e temporali, e, in questo labirinto, la sua conoscibilità va irrimediabilmente perduta. Da questo punto di vista, l'insistenza quasi ossessiva con cui Welles e Toland scelgono di riprendere in profondità di campo è a dir poco sintomatica. Se la realtà è questo grumo inestricabile di cose infinite i cui criteri di organizzazione risultano intrinsecamente irriducibili a qualsivoglia conoscenza umana, allora, è chiaro che il reale va guardato col massimo rispetto; la qual cosa, tradotta nella strumentazione tecnica degli inizi degli anni '40, significava dover scegliere, soprattutto, l'ampiezza focale degli obiettivi grandangolari, che permettevano una nitidezza diffusa a tutta la scena, su piani spaziali comunque differenti, a dimostrazione, appunto, che la realtà vive di una sua verità che deve essere presa nella sua interezza, perché un frazionamento della realtà inficerebbe la sua pluralità di senso. Riprendere la realtà in profondità di campo, con molti piani sequenza ove i personaggi si trovano ad esser lasciati agire, aiuta a rendere ragione della realtà; certo, si tratta d'una cifra stilistica paradossale per un cineasta della specie di Welles, che ha sempre rifiutato il realismo come la più grande delle menzogne; ma è un paradosso che trova la sua ragione, infine, nella necessità di non inquadrare la realtà entro margini stretti che finirebbero, per l'appunto, col sottrarre al reale la sua costitutiva plurisemanticità. Salta agli occhi, poi, una seconda scelta stilistica, che sembra in contrasto con la prima: quella, cioè, delle luci espressionistiche, costantemente sospese tra la luce ed il buio, e sparate, con la potenza elettrica dei fari da teatro, sui volti e sui corpi dei personaggi. Luci delegate a illuminare gli ambienti proprio mentre sembrano obbedire a una logica che vuole che i volti siano rabbuiati: quasi a dire che l'uomo è sostanzialmente immerso nell'ombra delle sue intenzioni e nel buio del suo destino. Basti pensare alle inquadrature iniziali dopo la proiezione del documentario - i volti dei giornalisti che fanno l'inchiesta su Kane escono ed entrano nella luce, quasi ad anticipare il risultato dell'indagine; o a quella netta divisione delle luci che satura la stanza della Biblioteca Thatcher ove Thompson legge il manoscritto del tutore - a suggerire, per il tramite di questa luminosità simbolica ed evocativa, l'ambiguità congenita del personaggio del banchiere -; oppure, all'incontro, con Gettis - sequenza tutta immersa nelle ombre, perché Gettis è il capostipite di un'umanità spaventosa che non può non colmare di tenebre tutti gli ambienti in cui si trova ad agire.

Il Realismo - o, meglio, la profondità di campo - e l'Espressionismo convergono, quindi, a costruire un sistema stilistico nuovo ed indecifrabile: reso ancor più complesso, peraltro, dalle improvvise impennate di montaggio con cui Welles decide di raccontare, per via analogica e sintetica, tutte le vicende su cui non ha intenzione di soffermarsi troppo; momenti importanti, però, perché servono a far progredire la storia per mezzo di brevi sketch narrativi che, magari, illustrano un tutto nella brevità del motto di spirito. Ecco, allora, l'emergenza di montaggi veloci, in stile documentaristico, funzionali alla comunicazione di battute sintetiche e altamente significative o agli interventi fuori campo di voci narranti. E ancora: ecco il presentarsi di montaggi un po' più colti, qualche volta costruiti sull'assonanza ardita dell'inquadratura - per improvvidi salti di tempo e di spazio: la fotografia della redazione del Chronicle andata all'Inquirer - e talaltra sul principio della metafora - si pensi alla colomba che vola via quando fugge Susan Alexander o alla luce che improvvisamente si spegne a preannunciare il tentativo di suicidio della stessa Susan. Il tutto a formare quel patchwork, appunto, che è Quarto potere: film perfetto e unitario costruito, per paradosso, sul gioco continuo ed ininterrotto dei salti di stile.




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martedì 14 aprile 2009

Che - L’Argentino di Steven Soderbergh


Title: Che - L’Argentino
Director: Steven Soderbergh
Years: 2009
Genre: Drammatico, Storico


Il 26 novembre del 1956 il medico argentino Ernesto Guevara salpa alla volta dell'isola di Cuba con un giovane avvocato di nome Fidel Castro e altri 80 ribelli determinati a rovesciare la dittatura di Fulgencio Batista con una rivoluzione. Medico, stratega e instancabile guerrigliero, il "Che", alla guida di una colonna di uomini, dopo un lungo faticosissimo periodo sulla Sierra Maestra, conquista la città di Santa Clara e si riunisce ai compagni per marciare su L'Avana.
Quello che appare sugli schermi, dopo otto anni di lavoro, è il Che di Soderbergh, quello che nessun altro avrebbe potuto fare in maniera simile, quello che di Soderbergh autore e produttore porta il marchio indelebile, anche là dove calpesta nuovi sentieri, anche e appunto perché li calpesta. Scardinando le convenzioni della continuità, con stacchi avanti e indietro nel tempo (bello il ritorno alla terrazza del primo incontro con Fidel) e spostamenti nello spazio -dalla foresta tropicale alla sede delle Nazioni Unite - che la dicono lunga sulla versatilità del protagonista, Soderbergh parla anche di se stesso, del suo cinema, che rimbalza tra esplorazione e diplomazia, tra le immagini ultravivide dell'avventura (girate con la Redcam) e quelle declinate nel bianco e nero glamorous targato Nordamerica e società dello spettacolo.
Sono due binari: da un lato si fa strada un leader, tra i colpi dell'asma e dei fucili nemici, dall'altro nasce una stella, sotto i flash dei fotografi e delle interviste romantiche. In questo senso, nel suo film rispettosissimo e tutt'altro che declamatorio, il regista prende una posizione netta dicendoci che non è la meta che (gli) interessa, non l'icona, ma il viaggio.
Il personaggio di Che Guevara (ri)nasce nel corpo più massiccio di Benicio Del Toro (lontano anni luce dal ragazzino sensibile dei Diari della motocicletta) e si costruisce per azioni, per tono della voce, per furore dello sguardo: prima con le armi del cinema che con quelle della storia.
Purtroppo Che - L'Argentino non si fa apprezzare pienamente per colpa di un doppiaggio che non ha ragione di esistere, che livella, decontestualizza, toglie al protagonista il suo carattere di straniero, e perché è probabilmente come film-esperienza, nella sua durata complessiva di quattro ore e mezza e nella voluta discontinuità tra le due parti che lo compongono, che si arricchisce di senso. D'altronde quel che fa Soderbergh è esattamente questo: entrare nella dimensione esperienziale della rivoluzione, al ritmo dei passi stanchi, delle notti di veglia, delle decisioni da prendere sul momento, degli errori commessi per sempre, per raccontare di un uomo che ha fatto di un'idea una pratica, per esporci, in pratica, un'idea di cinema.





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